ADERISCI AD ALTERNATIVA LIBERTARIA/FdCA

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per giulio

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mercoledì 30 novembre 2016

Il femminismo è una questione di vita o di morte

 category bolivia / peru / ecuador / chile | género | portada author Sunday October 30, 2016 18:03author by Melissa Sepúlveda - El Ciudadano


In queste ultime settimane, le reti sociali si sono riempite di rabbia e di frustrazione davanti all'evidenza, ancora una volta, di ciò che accade da moltissimo tempo: tortura, stupri e omicidi di donne, per il solo fatto di essere donne. 
Vanno e vengono commenti di tutti i tipi. La risposta da parte di donne da tutto il mondo è stata l'organizzazione di marce di solidarietà, incontri e attività sotto lo slogan "Ni una menos". E dall'altra parte si sono manifestate reazioni viscerali da parte di uomini che, volendo giocare all'empatia, avanzano lo slogan assurdo di "nadie menos” (nessuno di meno), evidenziando così che non è tanto facile, nemmeno quando si parla di donne uccise, che gli uomini abbandonino i loro privilegi di dominazione. Oggi è sempre più chiaro che questa guerra silenziosa è una questione di vita o di morte, e la riflessione è il primo strumento che abbiamo per combattere questa lunga storia di dominazione patriarcale.

Analizzare ciò che si nasconde dietro questi eventi non è per niente facile, poiché dobbiamo mettere in discussione il senso comune che è profondamente radicato nella società. Vorrei iniziare con una domanda chiave: a chi appartiene il corpo delle donne? Sembra che tutti vogliano possederne almeno una parte: lo Stato obbliga alla maternità attraverso il divieto dell'aborto. Il marito maltratta e trattiene la donna attraverso la dipendenza economica ed emozionale. Il padre decide delle sue figlie attraverso la sua doppia autorità, e lo sconosciuto si sente in diritto di guardare e toccare il corpo della donna quando vuole. D'altra parte, l'idea che siamo soggetti che necessitano protezione e cura, ovvero l'associazione apparentemente ovvia tra femminilità e debolezza, stabilisce un'alleanza tra il ruolo sociale e l'autopercezione della donna, cosa che permette il consolidamento di un vincolo che, visto da vicino, assomiglia ad una schiavitù, ma che fino ad oggi non scandalizza nessuno, se non le femministe più convinte. A questo proposito è significativa la frase di Simone de Beauvoir: "L'oppressore non sarebbe così potente se non trovasse fedeli collaboratrici tra le oppresse".

È come se dovessimo necessariamente appartenere a qualcuno, che sia il padre, il fidanzato, il marito o lo Stato, ad un grado tale di brutalità che la proprietà sul nostro corpo legittima anche il diritto di porre fine alle nostre vite. Questa è la massima autorità del "pater". D'altra parte, bisogna chiedersi: cos'è che succede alla soggettività maschile che è capace di commettere le atrocità di cui siamo testimoni? Alcuni si appellano all'infermità mentale, ma gli stupratori sono effettivamente tutti uomini psicotici senza coscienza e volontà, o per lo meno, tanto malati da essere giudicati in base alla loro capacità di intendere e di volere? Il numero elevato dei casi di violenza fisica e psicologica contro le donne nel mondo sono tipici di una società profondamente malata. Le giustificazioni individuali di questi fatti che si ripetono sistematicamente non fanno che spostare il punto d'interesse dell'analisi, cosa che si esprime in maniera esemplare nella stampa quando descrive i femminicidi più cruenti come "pazzie d'amore" o "crimini passionali", dove naturalmente abbondano gli argomenti e i commenti sul vestito indossato dalla donna, sull'eventuale consumo di droghe o sulla sua presunta infedeltà, come giustificazioni perfette per far valere il massimo grado del potere maschile. La difesa della proprietà privata grida: "L'ho uccisa perché era mia", questione che è presente anche dall'altro lato della medaglia: "Poteva essere mia sorella, mia madre o mia moglie". Mia. L'invisibilità delle molestie per strada agli occhi degli uomini potrebbe spiegarsi con il fatto che, stranamente, basta un solo uomo in un gruppo di donne perché il codice patriarcale riconosca che l'uomo è il proprietario di quelle donne. Così, praticamente in tutta la storia della civiltà occidentale il corpo della donna è stato utilizzato come merce o come simbolo di sovranità, essendo lo stupro di donne e bambine nei territori conquistati in guerra un ripetuto e doloroso esempio nella nostra memoria.

Quali sono le soluzioni? E qui viene il problema più grande. Molti compagni sostengono che sia necessaria una pena esemplare: ergastolo, o pena di morte. Senza dubbio la questione cruciale è che gli uomini non sono capaci di riconoscere i loro privilegi nei confronti delle donne. Sono sempre "altri uomini" che abusano, uccidono o violentano, e sembra non esserci una relazione tra i casi di femminicidio e altre forme più sottili - ma ugualmente violente - proprie della "cultura dello stupro". 
Per esempio, nella marcia di domenica scorsa contro la AFP(1), durante un intervento artistico che proponeva un viaggio attraverso i luoghi comuni che vivono quotidianamente i cileni, come l'umiliazione di fronte al capo e l'insofferenza di fronte all'esclusione, si affermava: "Siamo persone, entriamo in un bar con le nostre gambe, guardiamo e tocchiamo tette e culi caldi". Quanto è ormai interiorizzato il fatto che l'uomo possa comprare il corpo della donna, sia che passi attraverso la pubblicità che accompagna un prodotto o attraverso un magnaccia in un bordello. Però non bisogna dimenticare che il patriarcato non è solo capitalismo. L'accesso al corpo della donna non è solo mediato dal mercato, e per capirlo possiamo osservare uno spazio dove la relazione commerciale non è presente: la famiglia.

Di fronte all'inevitabile mobilitazione sociale delle donne le autorità del governo traboccano d'ipocrisia. Le politiche contro la violenza intrafamiliare sono state inefficaci dalla creazione del Sernam(2) e la legge sul femminicidio in Cile si limita agli omicidi commessi contro la donna che è o è stata coniuge o convivente dell'autore del crimine. La legge sull'aborto dorme in parlamento e il recente Ministero della donna investe in opuscoli sull'uso di un linguaggio inclusivo senza nessuna interpellanza o sanzione ai mezzi di comunicazione che quotidianamente sono complici di una cultura misogina. Le domande le rivolgiamo ora a noi stesse e a noi stessi: perché permettiamo che quotidianamente il sostentamento culturale dei femminicidi venga trattano con ironia? Perché non reagiamo di fronte alla violenza simbolica nello stesso modo in cui reagiamo alle donne assassinate? Perché permettiamo che "Morandé con compañía"(3) riempia gli spazi del tempo libero del popolo lavoratore?

A seguito dei casi di femminicidio che oggi commuovono l'America Latina e il mondo è necessario riflettere profondamente sulle forme in cui riproduciamo il patriarcato e come questi cinquemila anni di dominazione siano profondamente radicati nel nostro senso comune. Non possiamo sottovalutare la possibilità che ci offre il femminismo di osservare e trasformare quello che succede quando il dirigente sindacale, politico o sociale torna a casa; o ciò che succede nelle relazioni sociali delle nostre città. Sfortunatamente è in questa intimità, con la complicità della famiglia, che avvengono gli orrori più grandi. E' difficile vedere quanto il nemico sia vicino, però i compagni devono assumere e riconoscere i privilegi che ostentano in questa società patriarcale - e abbandonarli, se realmente vogliono lottare per l'emancipazione dell'umanità.

Alle mie sorelle, lamngen(4), e donne di tutto il mondo voglio dire che abbiamo una battaglia da vincere, che è probabilmente la madre di tutte le battaglie: costruire un mondo nuovo, proteggere il territorio, che è il nostro corpo e la nostra terra. Questo è un appello femminista alla costruzione di reti di autodifesa: proteggiamoci, diffondiamo solidarietà tra di noi, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole e nelle nostre organizzazioni. Non tolleriamo più questa violenza sistematica. Unite vinceremo!


(traduzione a cura di AL/fdca - Ufficio Relazioni Internazionali)


note:
1) AFP (Administradoras de Fondos de Pensiones) sono istituzioni finanziarie private incaricate di amministrare i fondi pensione.
2) Il Sernam (Servicio Nacional de la Mujer) è un organismo che promuove l'uguaglianza delle opportunità tra uomini e donne fondato nel 1990.
3) Programma televisivo cileno con evidenti contenuti sessisti, oggetto di diverse polemiche.
4) “Sorelle” in lingua mapuche.

giovedì 24 novembre 2016

Palestina-Israele, dopo 13 anni di lotta unitaria (12 a Bil'in), abbiamo conquistato il diritto a tenere manifestazioni non-armate contro il muro della separazione, contro i coloni e contro l'occupazione*

 
Bil'in, Ni'ilin, Qaddum, Shikh Jarrah e Colline Sud di Hebron
All'inizio, erano più di 450 gli Israeliani della sinistra radicale che si unirono alle centinaia di Palestinesi di Bil'in e della regione nella lotta contro il furto delle terre del villaggio per costruirvi sopra l'insediamento coloniale di Modi'in Elit protetto dal muro della separazione. Ci son voluti 7 anni perchè le forze di stato smettessero di impedire agli attivisti israeliani di recarsi a Bil'in ogn venerdì per le manifestazioni unitarie. E ci sono voluti altri 5 anni perchè la smettessero di spararci addosso gas lacrimogeni e proiettili "non-letali". Due abitanti di Bil'in hanno perso la vita, centinaia di Palestinesi e di Israeliani sono rimasti feriti, fermati e persino arrestati (per i Palestinesi fino ad un anno e mezzo di detenzione, per gli Israeliani non più di uno o due giorni). Diverse migliaia di attivisti internazionali hanno partecipato insieme a noi alle manifestazioni e contribuito ad allargare la lotta contro l'occupazione a livello internazionale. Proseguono i maltrattamenti notturni contro gli attivisti del villaggio, ma la lotta non si fermerà.













 
 
*Ilan Shalif

http://ilanisagainstwalls.blogspot.com/



Anarchici Contro Il Muro

http://www.awalls.org



Blog di Ahdut (Unità - organizzazione comunista anarchica israeliana): http://unityispa.wordpress.com/



(traduzione a cura di ALternativa Libertaria/fdca - Ufficio Relazioni Internazionali)

mercoledì 23 novembre 2016

Plutarco , Leopardi : l'animale buono da pensare . Gino Datadi + Cowspiracy







Donne Contro a Pordenone il 1 dicembre e Staranzano (GO) il 2 dicembre

Giovedì 1 Dicembre ore 20.45
Al Prefabbrikato via Pirandello 22
quartiere Villanova Pordenone

Presentazione del libro:
Donne Contro
Interviste a dieci donne anarchiche, marxiste e femministe incontrate tra la Catalonia, la Francia e l' Italia
del marzo 1977 al febbraio 2013
Con la presenza dell' autrice: Isabella Lorusso

Incontro organizzato dal Circolo Libertario E. Zapata

ENTRATA LIBERA

Contatti:
Pagina fb: https://www.facebook.com/amicizapatisti/
Blog :www.zapatapn.org
E-mail: info@zapatapn.org

Piero Cipriano e PierPaolo Capovilla al Django di Treviso

 al Django di Treviso



 Questa settimana abbiamo in serbo grandi cose!
Si comincia venerdì sera, dalle ore 20.30 con la presentazione del libro di Piero Cipriano, La società dei devianti.
Sarà un'occasione per approfondire il tema della percezione del disagio psicologio all'interno della nostra società e per fare due chiacchiere con l'autore.
A seguire, Nadàr Solo + Hope You're Fine Blondie - SISMA at Cs Django!

































Affronteremo con l'autore Piero Cipriano cosa comporta oggi la medicalizzazione del disagio psicologico, la volontà affannosa di attribuire ad ogni stato d'animo una diagnosi definita per poi poter affibbiare la cura data per certa. Ecco allora che per un lutto, un disagio legato all'età evolutiva, un periodo di profonda tristezza si dispensano pillole, definizioni oscure, predizioni fantasiose.
Interverrano Pierpaolo Capovilla de Il Teatro degli Orrori e Dario Marini di Alternativa Libertaria!

"Ho vissuto metà del mio tempo nei luoghi dove si deposita la follia più indesiderata e tutta la possibile devianza dalla norma. E ho visto, da questo luogo privilegiato, in che modo gli uomini si trasformano, siano essi i curanti o i devianti.

Si chiude con queste crude storie che raccontano il mal di vivere della nostra epoca la trilogia della riluttanza iniziata con La fabbrica della cura mentale e proseguita con Il manicomio chimico. A partire dalla sua frequentazione quotidiana con la sofferenza psichica, Cipriano si misura con quella stanchezza esistenziale, sbrigativamente definita depressione, che la nostra società antropofaga prima alimenta e poi cerca di etichettare con quel furore diagnostico e categoriale che le è proprio. A ogni deviante la sua etichetta, medica o psichiatrica, ma anche sociologica o giudiziaria, che così diventa una sorta di tatuaggio identitario, un destino imposto da cui tutto il resto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che ognuno potrà o non potrà fare (ed essere) nella sua vita."

lunedì 14 novembre 2016

Vulnerabilità sismica e lacrime di coccodrillo

denti

 










Il terremoto è un evento naturale diffusissimo sul nostro pianeta.
In un anno se ne registrano nel mondo circa un milione, di cui alcune migliaia sono abbastanza forti da essere percepite dall’essere umano, ma di cui solo qualche decina è in grado di causare gravi danni. Per fare qualche esempio generalmente avvengono più di 14000 terremoti all’anno con M > 4 e più di 130000 con M > 3. Se per ogni territorio riuscissimo a definire in maniera sufficientemente precisa l’energia di un terremoto ed a stabilirne in modo preciso il tempo di accadimento, avremmo risolto il discorso della previsione dei terremoti. Ma ciò non è possibile sia perché non abbiamo un arco temporale sufficientemente rappresentativo di osservazione scientifica degli eventi sismici, e sia perché, alla luce delle attuali conoscenze pare che i terremoti che si susseguono in un determinato territorio non siano assolutamente periodici.
L’unica previsione a lungo termine che si può fare è quella storico-probabilistica che viene impiegata per definire la pericolosità sismica di base di una determinata area, e che è funzione della probabilità di superamento di un determinato livello energetico del sisma, in un determinato intervallo di tempo.
Anche perché sul versante della previsione a corto termine non siamo messi benissimo; poco di preciso si sa infatti sul comportamento dei precursori sismici, tutti quei fenomeni che sembra possano in qualche modo preavvisare un evento sismico di grande dimensione. Sembra infatti che l’aumento della concentrazione del gas radon o il manifestarsi di sciami sismici, o il conclamarsi di altri fenomeni che a volte anticipano i terremoti non sempre preannunciano scosse importanti e
inoltre che molti eventi catastrofici che si sono verificati negli ultimi anni
non sono stati purtroppo preannunciati da alcun fenomeno precursore.
L’unico aspetto, quindi, su cui si può fare leva per difenderci da questi eventi naturali è la prevenzione, ossia prevedere i loro effetti. E cosa significa fare prevenzione rispetto ai terremoti?
Dal punto di vista della prevenzione contro gli effetti del terremoto, inquadrare una determinata area e considerare l’interazione fra il terremoto, le opere umane e le persone presenti sull’area, significa definirne il Rischio Sismico.
Il Rischio Sismico quantitativamente è espresso dal prodotto di tre grandezze: pericolosità, vulnerabilità ed esposizione.
La pericolosità sismica è una grandezza oggettiva, indipendente dall’intervento umano, ed è la probabilità che si verifichi, in una data area, entro un dato periodo di tempo, un terremoto di una data energia; la vulnerabilità sismica esprime la propensione delle opere costruttive umane a resistere ai terremoti; la vulnerabilità, a differenza della pericolosità, è una grandezza soggettiva perché dipende dalla qualità con cui vengono costruiti gli edifici; infine l’esposizione, anch’essa una grandezza soggettiva, rappresenta la presenza di popolazione, strutture, infrastrutture, attività o comunque beni in termini di vite umane, economici, storici e strategici che possono essere danneggiati da eventi sismici.
Consideriamo le implicazioni di queste grandezze a livello sociale.
La pericolosità sismica esprime quindi, per una determinata area o per una determinata costruzione, il terremoto che ci si può aspettare in termini energetici in un determinato periodo di tempo. Essa dipende essenzialmente da due gruppi di condizioni al contorno: il primo, che definisce la pericolosità sismica di base, è caratterizzato dalla posizione dell’area, o dell’edificio, rispetto alle zone sismogenetiche (le aree dove si generano i terremoti); il secondo, che definisce gli effetti sismici locali, è caratterizzato dalle caratteristiche geologiche e topografiche del sito dell’area o dell’edificio considerati.
La pericolosità sismica di base viene definita con metodologie storico-probabilistiche: vengono prima ricostruiti i cataloghi storici degli eventi che successivamente vengono trattati con criteri probabilistici e spalmati sul territorio dopo essere stati sottoposti a leggi di attenuazione.
Si capisce che a seconda dei criteri probabilistici e delle leggi di attenuazione impiegati, possono derivare, per un medesimo territorio, diverse classificazioni.
Per definire al meglio la pericolosità sismica (ossia ricordiamo l’energia di un terremoto in funzione dell’intervallo di tempo considerato) vanno considerati anche i già accennati effetti sismici locali, dipendenti come abbiamo visto dalla geologia e dalla topografia di un certa area.
Alcune tipologie di terreni hanno infatti la capacità di amplificare l’ampiezza delle onde sismiche e di modificarne le frequenze, in funzione dei loro spessori e delle loro caratteristiche geofisiche; inoltre i fenomeni di amplificazione si verificano anche in determinate condizioni morfologiche (pendii ripidi, creste affilate, fondo valli stretti, ecc).
A questi effetti vanno poi aggiunti altri fenomeni locali legati al sisma come le frane indotte ex novo o riattivate in seguito allo scuotimento ripetuto e continuato di suoli instabili; la liquefazione dei terreni che si verifica in determinate condizioni geotecniche ed idrogeologiche, in seguito a carico ciclico causato dalle onde sismiche su sedimenti immersi in falda; la fagliazione che si verifica quando le rotture che generano il terremoto arrivano fino in superficie ad interessare le opere umane.
Ora, se per la determinazione della pericolosità sismica di base del territorio italiano si può al limite discutere e obiettare sui criteri utilizzati nel definirla, per quanto riguarda la definizione degli effetti sismici locali siamo ancora indietro, e non per un’arretratezza delle teorie e delle tecniche scientifiche al riguardo, quanto invece per una colpevole ignavia di molte amministrazioni pubbliche competenti e per una generale resistenza dei proprietari delle strutture costruttive, privati o pubblici che siano.
E questo dovrebbe essere un aspetto da non trascurare visto che gran parte degli edifici delle grandi città italiane, compresi edifici sensibili come scuole ed ospedali, sono situati su aree suscettibili di amplificazione sismica.
Quindi, se dal punto di vista della pericolosità sismica di base (macrozonazione) siamo messi non malissimo (pur con tutti i limiti legati alla scelta dei criteri probabilistici per definirla ed a quelli legati ai limiti delle conoscenze storiche degli avvenimenti sismici) e per quanto riguarda la conoscenza degli effetti sismici locali siamo indietro, dal punto di vista della Vulnerabilità sismica siamo messi malissimo. (Ricordiamo che la Vulnerabilità sismica di un edificio è data dalla sua propensione a resistere ad un terremoto di una certa energia e determinato contenuto in frequenza).
Non raramente infatti si sentono diversi tecnici delle amministrazioni locali ammettere candidamente di non conoscere la Vulnerabilità sismica della stragrande maggioranza degli edifici dei propri territori di pertinenza. E non solo di quelli relativi alle abitazioni private, ma anche dei vari edifici sensibili come scuole ed ospedali.
Il problema è enorme se si considera il fatto che più del 50% del patrimonio edilizio italiano è stato costruito prima che ci fosse una precisa normativa antisismica, ed anche molti edifici relativamente nuovi sono stati costruiti senza criteri antisismici, perché costruiti prima del 2003, prima cioè che il loro sito fosse classificato con una classe di pericolosità sismica maggiore rispetto a prima.
Se vogliamo fare un altro esempio calzante rispetto al problema della Vulnerabilità sismica, in Italia abbiamo un’edilizia scolastica che per più del 60% è costituita da edifici costruiti prima che, in fase progettuale, venisse presa in considerazione quantitativamente qualsiasi azione sismica. Ma a mio parere non possiamo essere certi di quelli costruiti anche quando le normative tecniche relative alle azioni sismiche erano state delineate perché sappiamo bene come si è sviluppata ad esempio l’edilizia romana negli anni ’70 e ’80 del secolo passato.
È chiaro che ci troviamo di fronte ad un enorme problema di valutazione della reale ed attuale Vulnerabilità Sismica e del conseguente adeguamento delle vecchie strutture alle nuove normative.
E se si vuole affrontare il problema in maniera seria e reale, andrebbero approntate delle indagini strutturali con lo scopo di: verificare la qualità dei materiali impiegati nella costruzione della struttura, verificare la funzionalità degli elementi strutturali che compongono la struttura, verificare la funzionalità della struttura in toto. E una volta verificata l’eventuale incompatibilità della struttura a resistere alle azioni del sisma, questa andrebbe adeguata aumentandone le resistenze.
Ma abbiamo anche imparato sulla nostra pelle che la sicurezza sociale nei territori è spesso, se non sempre, sacrificata sull’altare del profitto e degli euro-sacrifici.
Anche perché in realtà le risorse tecniche ed economiche per affrontare la problematica del rischio sismico e degli altri tipi di rischi ambientali ci sono.
Bisognerebbe sottrarle alle amministrazioni statali, centrali e periferiche, che le sprecano nel mantenere l’esercito del consenso all’interno delle aziende pubbliche o a capitale misto o nel mantenere gli eserciti propriamente detti in giro per il mondo a garantire quella pace essenziale agli affari delle multinazionali, bisognerebbe sottrarle dalle cifre che vengono regalate agli imprenditori delle finte cooperative con le esternalizzazioni dei servizi, o a quanto viene distribuito ad un imponente esercito di dirigenti totalmente inutili alla collettività.
Per non parlare degli enormi costi della politica rappresentativa.
Con il beneplacito delle amministrazioni e la tracotanza delle lobby affaristiche si continua a disseminare il nostro territorio di costruzioni inutili alla collettività, sottraendo risorse che potrebbero essere impiegate per migliorare e aumentare la sicurezza sismica delle nostre scuole, ospedali e case. Non aspettiamoci nulla da chi ci amministra. Dopo le lacrime di coccodrillo tutto tornerà come prima.
Zatarra – AL Roma

Gli artigli del califfo: Erdoğan e i Curdi

La natura dittatoriale del regime Erdoğan è stata messa a nudo, insieme alla complicità delle potenze che hanno bisogno dei Curdi nella lotta contro lo Stato islamico, ma che chiudono un occhio davanti  alle brutali zampate del califfo di Ankara.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, aveva definito il colpo di stato del 15 luglio “come un dono di Dio”. E’ sempre più evidente oggi che cosa intendesse dire, dato che da allora ha usato questo golpe tiepido, mal organizzato e stupido, per far avanzare il suo progetto politico su due fronti principali: il consolidamento interno di uno stato autoritario  -fondato su una miscela di nazionalismo turco e fanatismo islamista- e una politica estera interventista,  come una sorta di imperialismo sub-regionale che cerca di far rivivere la nostalgia per il Sultanato-califfato dell’ epoca dell’impero ottomano. Dato lo sviluppo degli eventi post-putsch, sembra essere chiaro che c’è stata una manipolazione da parte del regime di alcuni settori dell’esercito che, forse inavvertitamente, hanno servito su un piatto d’argento la situazione perfetta perchè Erdoğan dichiarasse lo stato di emergenza, si sbarazzasse di ogni pretesa democratica per portare a termine il  consolidamento del suo potere assoluto nella struttura statuale turca [1].

Con la scusa di perseguitare i seguaci del suo ex alleato, ora trasformato in nemico, il religioso Abdullah Gul, Erdogan sta governando da mesi a colpi di decreti nel bel mezzo della sospensione dell’ordine democratico formale e sta cercando di rafforzare il suo controllo presidenziale, così come il sistema repressivo, puntando a reintrodurre la pena di morte. Con questo potere illimitato, ha chiuso più di 170 mezzi di comunicazione, molti dei quali curdi, di sinistra o addirittura laici [2], che non hanno nulla a che fare con nessun religioso, almeno 130 giornalisti sono stati arrestati [3] tra cui 13 giornalisti di Murat Sabuncu, il direttore del famoso giornale laico Cumhuriyet. Nel frattempo, più di 80.000 persone sono state arrestate in una purga politica senza precedenti e più di 100.000 dipendenti pubblici e decine di migliaia di insegnanti hanno perso il lavoro, sostituiti, ovviamente, da lacchè fedeli di Erdoğan. Con una mossa insolita, Erdoğan ha inferto un colpo al sistema di istruzione superiore arrogandosi il diritto di nominare personalmente i rettori delle università, mentre gli epurati vengono sostituiti con elementi provenienti dagli stessi ambienti del fanatismo religioso.

I Curdi sono stati forse i più duramente colpiti da questa offensiva reazionaria, anche se non hanno avuto nulla a che fare con il religioso Gul né con il putsch di luglio. La repressione ed il bagno di sangue ai loro danni erano già iniziati nella prima metà del 2015, in un contesto elettorale, in cui le manifestazioni del principale partito di sinistra e filo-curdo nello Stato turco, l’HDP, e le città curde erano stati vittime di un’ondata di attacchi in cui le forze di stato repressive erano libere di agire senza alcun tipo di difficoltà insieme ad elementi legati al fondamentalismo islamico. A questi attacchi sono seguite operazioni militari aperte contro i Curdi: in primo luogo, nella regione di Bakur (Kurdistan settentrionale che corrisponde al sud-est dello Stato turco); poi, nella regione di Rojava (Kurdistan occidentale che corrisponde alla Siria settentrionale), che aveva già sofferto dal 2014 gli attacchi portati attraverso la nota complicità  delle forze militari turche con lo Stato islamico, ma che  ora sono attacchi che vedono un coinvolgimento diretto dell’esercito turco con bombardamenti portati da operazioni militari di aria e di terra, come è stato evidente nella offensiva contro Jarablus [4], regione curda liberata dai guerriglieri YPG – poi attaccati dallo Stato turco, con la scusa di combattere lo Stato islamico. In realtà, questo territorio è stato consegnato a quell’accozzaglia eterogenea di fondamentalisti legati ad al Qaeda che sciamavano tra la “opposizione siriana”, protetti dallo Stato turco e dalle petro-monarchie del Golfo. Infine, la Turchia sta anche facendo pressione per un intervento militare nella regione del Basur (Kurdistan meridionale che corrisponde all’Iraq settentrionale), ancora una volta con la scusa di operazioni contro lo Stato islamico, in realtà con l’intenzione di fare la guerra contro il movimento di liberazione curdo.

Anche se Erdogan si è assicurato il sostegno dell’Unione Europea (utilizzando la minaccia di profughi), degli Stati Uniti (attraverso la sua appartenenza alla NATO) e della Russia (che ha saputo riconquistarsi con genuflessioni di ogni genere e promesse commerciali), i suoi interventi in Siria e in Iraq hanno scatenato reazioni di rabbia da parte dei governi di questi paesi, che hanno minacciato ritorsioni in caso di altri bombardamenti o attacchi, tanto che l’esercito turco ha operato con un po’ più di cautela nelle ultime settimane. Erdogan è un esperto nell’arte di allentare e tirare la corda. Eppure, la sua azione incendiaria è una delle principali cause della carneficina che oggi si vive in Medio Oriente.

Ultimamente, Erdogan ha spostato l’azione repressiva dalla persecuzione contro i funzionari pubblici, alla persecuzione aperta contro l’opposizione parlamentare. Mentre chiedeva un grande patto di unità nazionale all’indomani del colpo di stato -unità, ovviamente, tra nazionalisti laici e religiosi contro le comunità di sinistra e non turche nel territorio dello stato- toglieva l’immunità parlamentare ai deputati dell’HDP e cominciava ad accusarli e ad attaccarli violentemente. Questi attacchi hanno raggiunto l’apice, per ora, alla fine della scorsa settimana, con l’arresto, il 4 novembre, di Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, principali dirigenti del HDP. Insieme a loro, sono stati arrestati 11 deputati dello stesso partito, che è davvero l’unica opposizione legale che è rimasta nello stato turco: Nihat Akdogan, Nursel Aydogan, Idris Baluken, Leyla Birlik, Ferhat Encü, Selma Irmak, Sirri Süreyya Önder Ziya Pir, Imam Tascier, Gülser Abdullah Yildirim e Zeydan. Il 30 ottobre, sono stati arrestati -sempre con l’accusa di “terrorismo” – Gülten Kisanak e Firat Anli, che condividono la carica collegiale di sindaco di Amed (Diyarbakir), principale città curda dello Stato turco e si aggiungono agli altri 30 sindaci curdi che sono stati arrestati ed ai 70 che sono stati arbitrariamente rimossi dal loro incarico negli ultimi mesi. In tutti questi casi, la sostituzione è stata nominata direttamente dall’esecutivo, ed è stato imposto un qualche oscuro burocrate della capitale turca, Ankara [5]. Ci sono mandati di arresto nei confronti di altri quattro parlamentari dell’HDP, Tugba Hezer, Faysal Sariyildiz, Imam Tasci e Nihat Akdogan [6].

Alla luce di questi eventi, la natura dittatoriale del regime Erdoğan è stata messa a nudo, insieme alla complicità delle potenze che hanno bisogno dei Curdi nella lotta contro lo Stato islamico, ma che chiudono un occhio davanti alle brutali zampate del Califfo di Ankara. Anche quando il potere di Erdogan sembra illimitato come in questo momento, il malcontento nello Stato turco è molto esplosivo, come dimostrano le proteste giovanili a Gezi Park del 2013 e la resistenza curda che cresce dal 2014. Ogni volta, le azioni di Erdoğan non fanno che continuare ad alienargli sempre più settori. Proprio come Nerone, che secondo la leggenda, suonava la cetra mentre Roma bruciava, oggi Erdogan sta ottenendo le sue vittorie di Pirro, mentre lo Stato turco scende in una spirale di violenza e distruzione. A questo scenario si oppone  la ferma volontà di lottare dei movimenti popolari turchi  e del movimento di liberazione curdo che, alla fine, non potranno che  trovare uno spazio comune di azione -anche quando il costo umano che stanno pagando è decisamente agghiacciante.

José Antonio Gutiérrez D.
8 Novembre, 2016

Macchina diagnostica, agenzie della salute sovranazionali e campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione

di Gioacchino Toni
Conversazione con Piero Cipriano, “psichiatra riluttante”
pillola[ght] Dopo aver raccontato il manicomio fisico con La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), con Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] hai ricostruito come si è giunti all’era della psichiatria chimica in cui il manicomio è somministrato al paziente attraverso gli psicofarmaci. Nell’ultimo libro, La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ti soffermi soprattutto sull’aspetto diagnostico indicandolo come macchina in grado di conferire identità e destino all’individuo.
Leggendo la tua ricostruzione della storia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fino al DSM-5, manuale diagnostico sostanziale accettato e applicato acriticamente a livello mondiale, si ha la netta impressione di avere a che fare con l’ennesimo pacchetto normativo che si impone sull’umanità dettato da agenzie internazionali (come la World Health Organization) o da lobby che finiscono, di fatto, per dettar legge a livello internazionale (come l’American Psychiatric Association). Si tratta di agenzie che impongono a livello globale una precisa visione del mondo, in questo caso inerente alla salute/malattia degli individui, in strettissimi rapporti con un altro potentato sovranazionale: la lobby dell’industria farmaceutica.
Insomma, al lungo elenco di agenzie economiche e politiche internazionali che determinano la nostra vita – International Monetary Fund, World Bank, Goldman Sachs, European Union, United Nations, European Central Bank ecc. -, possiamo aggiungere anche agenzie ed associazioni come la World Health Organization e l’American Psychiatric Association con la loro bibbia diagnostica… Cosa ne pensi?
[pc] Sì, direi che è così. Una serie di etichette, da quelle mediche a quelle psichiatriche a quelle giudiziarie a quelle sociologiche, determinano una sequenza di percorsi terapeutici, rieducativi, riabilitativi, punitivi, espulsivi, a cui è sempre più difficile sottrarsi. Una società nosografica, che per forza di cose poi diventa società terapeutica: siamo anormali, dobbiamo curarci. Come? Coi farmaci, per lo più. Eccoci dunque in questa era della farmacocrazia.
[ght] Nel tuo La società dei devianti si parla dell’urgenza di intraprendere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione. Tale campagna, oltre che a fare pressione sui politici affinché si arrivi all’abolizione di tale pratica, deve necessariamente raggiungere l’opinione pubblica mettendola al corrente della pratica della contenzione e di quanto sia ancora diffuso il ricorso ad essa. Informare l’opinione pubblica comporta un’estensione della responsabilità; un’opinione pubblica sensibilizzata a proposito del ricorso a tale pratica costrittiva dovrebbe sentirsi in dovere di farsi carico della questione. La difficoltà maggiore mi sembra quella di individuare le modalità con cui raggiungere la gente comune in una realtà che vede i media interessati a tutto ciò che riguarda il disagio mentale solo quando ad esso è possibile imputare qualche forma di violenza particolarmente cruenta. Non di rado nel trattare tali episodi i media danno voce a una sempre meno celata “nostalgia di manicomio”. Sicuramente scriverne è importante e da questo punto di vista la tua “Trilogia della riluttanza” può essere considerata un ottimo contributo alla denuncia ed all’informazione così come tutte le iniziative di presentazione dei libri può essere utile a sensibilizzare l’opinione pubblica. Cos’altro si può fare di concreto, a tuo avviso, per supportare la campagna contro la contenzione?
[pc] Bella domanda. Che mi fai proprio in un momento in cui questa campagna, per slegare i cristi in croce legati nei luoghi non solo della psichiatria ma dell’intera medicina, un po’ langue, boccheggia, stenta. Perché stenta? Perché lo sapevamo che era un’iniziativa difficile, lunga, piena d’insidie, e che chi, come me, si esponeva (sono uno psichiatra che è contrario alle fasce e ne chiede l’abolizione, che tuttavia continua a lavorare in un reparto dove vengono, anche se sempre di meno, ancora adoperate), rischiava molto. Perché le fasce sono economiche. Sono comode. Sono facili, semplici. Non comportano il difficile esercizio del pensiero (per dirla con Hannah Arendt). Non comportano mettersi più di tanto in discussione. Basta un po’ di rimozione, o l’abitudine, abituarsi alla pratica, anche a torturare il torturatore in fondo si abitua (leggersi Notturno cileno o Stella distante, di Bolaño, per esempio), dopo essere stato opportunamente inziato. Difficile è sbarazzarsi delle fasce e domandarsi: e ora?, come faccio a relazionarmi con quest’uomo, o questa donna, o questo adolescente, o questo vecchio, o questo cocainomane, o questo ubriaco, che si agita, che mi aggredisce? Lì è la sfida. Invece ci addestrano a fare i legatori. Leghiamo l’umanità! E dopo averla legata (e torno alla tua domanda di prima) con le etichette diagnostiche che t’incanalano per sempre in percorsi obbligati, dopo averla legata con molecole che ti gessano i pensieri, te li paralizzano, o viceversa ti esaltano innaturalmente le emozioni, dopo averla legata con contenitori e luoghi d’ogni sorta, se tutto ciò non basta, per i più indomiti recalcitranti riluttanti, ecco il legamento più primitivo, e però più sicuro: le fasce.
Le fasce, come gli altri legamenti che le precedono, sono entrate ormai nel nostro immaginario, nelle prassi, in ospedale, tra gli addetti ai lavori, medici infermieri ausiliari psicologi ma anche tra i famigliari, ne troverai pochi che si scandalizzino. Lo scandalo, al contrario, lo procuriamo noi che proponiamo l’abolizione delle fasce. Siamo noi, i medici infermieri psicologi che contestano i legamenti a essere scandalosi, e dunque pericolosi, con questa nostra iniziativa velleitaria. La follia è pericolosa, il matto è da legare, e anche solo proporre l’eliminazione di questo millenario strumento per gestire la follia è scandaloso, ed è pericoloso.
Per questo la campagna per abolire la contenzione si profila come un modo per continuare a contestare la manicomialità. Mettendo in discussione, stavolta, non solo il manicomio civile o quello giudiziario, ma proprio l’ospedale generale, l’intera medicina dunque. Per cui, cosa si può fare?, mi domandi.
87oreRicominciamo con varie iniziative, a ottobre, per esempio, un convegno a Castiglione delle Stiviere, per andare a stanare questa pratica proprio nell’OPG perfetto (anche se ora si è trasformato in una mega REMS), talmente perfetto che si legano agevolmente gli internati, anzi, vi è internata una donna che da una decina d’anni è costantemente legata, di giorno in carrozzina e di notte al letto. Coinvolgere persone che possano raccontare questa battaglia fuori dallo specifico degli addetti ai lavori. Persone della società dello spettacolo, per dirla alla Debord, per esempio Pierpaolo Capovilla, del Teatro degli Orrori, che si sta spendendo molto su questo tema, e ne canta nei suoi dischi, o Paolo Virzì, che nel suo ultimo film descrive bene cosa succede a chi entra nella morsa del circuito psichiatrico, e ci mostra Michaela Ramazzotti legata al letto. Ma servirebbero altri, come loro. Che realizzino altre opere esplicite, film come 87 ore, per esempio, dove viene mostrata la lenta agonia del maestro Mastrogiovanni legato a un letto per quattro giorni fino a morire, ecco, questo è un documento che bisognerebbe proiettare nelle scuole. Cose così, insomma.
[ght] Questa campagna contro le fasce di contenzione deve fare i conti con una società sempre più cinica e propensa a delegare la soluzione di tutto ciò che individua come “problema” a comodi “specialisti” di turno. Cogliere i devianti come problema comporta facilmente la concessione di una sorta di “delega in bianco” in favore di ogni pratica volta a toglierli dalla vita sociale. Da questo punto di vista, evitata ad arte una terminologia troppo esplicita, la segregazione in luoghi separati e il ricorso a forme di contenzione tutto sommato possono anche non essere viste con ostilità dall’attuale opinione pubblica. Una volta etichettati come devianti, saranno gli “esperti”, i “tecnici”, a farsi carico del “problema-devianti”. Farmaco o non farmaco, cinghia o non cinghia, l’importante è lavarsene le mani una volta che il problema viene rimosso dalla vita pubblica. Ripensando alla battaglia di Franco Basaglia e Franca Ongaro viene da pensare che se da un certo punto di vista la società degli anni ’60 e ’70 non era poi tanto più “aperta” mentalmente rispetto all’attuale, è anche vero che proprio in quel periodo si stavano aprendo “brecce di libertà” all’interno della cultura e della società italiana che oggi onestamente è difficile individuare. Cosa ne pensi?
[pc] Sottoscrivo ciò che dici. Ci siamo tutti rassegnati e consegnati al potere/sapere degli psichiatri, che nell’arte della manomissione delle parole, per dirla con Carofiglio, sono dei veri talenti. Hanno suddiviso il grande contenitore della follia in più di trecento partizioni, come a dire che oggi nessuno più è folle, ma nessuno più può dirsi del tutto normale, tutti noi abbiamo almeno due tre diagnosi possibili, ormai. Diagnosi che accettiamo passivamente, supinamente. Anzi, siamo a tal punto acritici che talvolta ci presentiamo e ci raccontiamo con quella diagnosi, io sono un borderline, io sono un bipolare, poco ci manca che le mettiamo perfino nel nostro biglietto da visita: Mario Rossi, depresso. Le diagnosi psichiatriche ristrutturano la nostra identità, un po’ come accade per i segni zodiacali, con la differenza che i segni zodiacali lasciano il beneficio del dubbio (non è roba scientifica, per quanto suggestiva), le diagnosi psichiatriche invece non lasciano dubbi, perché sono opera di scienziati della mente (è scienza, insomma).
contenzioneMa pure rispetto ai loro luoghi, gli psichiatri hanno messo in gioco il meglio della loro semantica: i manicomi non esistono? Perfetto. Vuol dire che la manicomialità la distribuiremo in altri contenitori più piccoli, meno appariscenti, che chiameremo soprattutto con acronimi: SPDC, CSM, CT, OPG, REMS, eccetera. I ricoveri ad infinitum non sono più possibili? Non c’è problema. Esiste un gioco dell’oca della cronicità per cui realizzo l’internamento circolare: dieci giorni in SPDC, un mese in Casa di Cura che ora si chiama STIPT, sei mesi in CT. Compi un reato ma sei deviante? Un anno in REMS, e poi ricominci il giro, magari ripassando dal SPDC.
[ght] Nel tuo La società dei devianti ragioni sui comportamenti che possono adottare gli operatori psichiatrici nella pratica quotidiana al fine di evitare trattamenti disumani nei confronti dei devianti. Inviti, ad esempio, a praticare un colloquio continuo con i pazienti, a portarli fuori dai luoghi di ricovero, a revocare i TSO, a sciogliere i legati ed a ridurre i farmaci. Attraverso tali comportamenti, sostieni, sarebbe più facile convincere i giovani operatori del settore, i pazienti e i loro famigliari che esistono altri modi per affrontare i disturbi mentali. Naturalmente gli operatori, così come le famiglie dei pazienti, si trovano a vivere in un mondo in cui l’aspetto produttivo, con i suoi ritmi sempre più infernali e dilatati nel tempo e nello spazio, sottrae buona parte del tempo e delle energie che possono essere dedicate a chi è in difficoltà. La stanchezza psicofisica degli operatori e dei familiari di certo si riversa negativamente su chi è in difficoltà. Non credi che nel mondo degli operatori psichiatrici una campagna finalizzata a un trattamento “più umano” dei pazienti debba intrecciarsi a rivendicazioni di tipo sindacale volte a rendere il lavoro meno sfiancante? Mi riferisco al numero di operatori impiegati in rapporto ai pazienti, ai turni di lavoro ecc.
[pc] Assolutamente sì. Lavoro in un reparto dove ci sono minimo dodici persone ricoverate. Tre infermieri non bastano, non possono bastare. Però il numero fa la differenza, ovviamente. Se già con tre-infermieri-che-non-vogliono-legare è possibile non legare le persone, per mia esperienza, figuriamoci con sei (se quei sei vogliono non legare). E’ ovvio che se invece ti trovi con infermieri-che-vogliono-legare, anche con dodici (potendoti dunque permettere un rapporto uno a uno) leghi le persone, non si sfugge. Discorso a parte per i medici. I medici sono coloro che, in fin dei conti, decidono se legare o non legare. I medici, per mia esperienza, più sono e meno decidono. O meglio, più sono e meno sono coraggiosi, e più si nascondono dietro le fasce. E più legano. Ma perché legano? Non lo so. A me pare che la maggior parte dei medici abbiano più dimestichezza con i libri, con le diagnosi, con i farmaci, con le molecole, che con le persone in carne e ossa. Sarà per la lunga formazione a cui sono stati sottoposti, formazione medica che invece di avvicinarli alle persone li allontana, che in qualche modo li disumanizza, apprendistato che gli fa perdere di vista la persona, che li addestra quasi esclusivamente allo studio del caso (clinico), caso (clinico) che diventa cosa. Oggetto. E qui torna attuale Franca Ongaro Basaglia quando ci ricorda che la medicina si forma sul corpo morto, e il medico impara a conoscere l’uomo vivo (malato) studiando il cadavere nelle aule di anatomia patologica, e memore di questo debito tende, il medico, sempre, a ricondurre l’uomo vivo (malato), a corpo morto, disteso sul letto d’ospedale, allettato, clinico, esanime, o coi farmaci o con le fasce.

giovedì 10 novembre 2016

Radicalismo dell’arte e scelte di vita



sabato 12 Novembre 2016 ore 17,30
                 All’Ateneo degli Imperfetti

















incontro con
Riccardo Caldura
docente di Fenomenologia delle arti contemporanee presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia.



Radicalismo dell’arte e scelte di vita

Non di rado nell’ambito della sfera culturale, in questo caso riguardante le arti contemporanee, vi sono delle figure o dei movimenti che sembrano avere una loro definita riconoscibilità, diventando dei luoghi comuni di un sapere più o meno diffuso. Ne sono un esempio Hugo Ball e il dadaismo, considerando il primo figura di spicco per la nascita, a Zurigo nel 1916, del secondo. Cioè il movimento artistico più radicale del Novecento.



Come d’abitudine la convivialità post conferenza si regge sulla condivisione del cibo e del bere: è pertanto auspicabile che tutte le persone contribuiscano a rendere ricca e appetitosa la nostra mensa


Informiamo tutti i compagni, amici, frequentatori dell’Ateneo degli Imperfetti che il sito www.ateneoimperfetti.it è aggiornato sempre con le nuove iniziative e contiene l’archivio di tutte le attività finora svolte.














Ateneo degli Imperfetti
www.ateneoimperfetti.it   

IX Congresso Nazionale della FdCA

IX Congresso Nazionale della FdCA
1-2 novembre 2014 - Cingia de' Botti (CR)